domenica 21 febbraio 2010

Che cos'è essere cristiano? Hans Küng (2009)
“Qual è la caratteristica essenziale del cristianesimo? Per riassumere al massimo, direi che è Gesù
Cristo stesso. È l'incarnazione viva e decisiva, la sua causa, la sua vera misura. Incarna un modo
totalmente nuovo di vivere, un nuovo stile di vita. Ci propone, a noi uomini moderni, un modo di
vedere le cose e un modello di pratica unici, anche se noi possiamo evidentemente applicarli in
modi molto diversi. Con tutta la sua persona, lui è invito, richiamo, provocazione. Chiede a tutti,
individui e società, di riorientarsi concretamente, di cambiare atteggiamento scoprendo nuove
motivazioni, nuove disposizioni, un nuovo orizzonte di senso ed un nuovo destino.
Chi allora è cristiano? Non è semplicemente l'uomo che conduce correttamente la sua vita sociale o
anche religiosa. Certo bisogna legare interiorità cristiana e apertura al mondo, ma anche il non
cristiano può essere umano, sociale e autenticamente religioso. È cristiano colui che cerca di vivere
la sua umanità, le sue relazioni sociali e la sua vita religiosa a partire da Cristo, secondo il suo
spirito, secondo la sua misura, né più né meno.” continua

Il mondo finirà nel 2012? Massimo Introvigne

Libri, trasmissioni televisive e film ci spiegano che il mondo finirà il 21 dicembre 2012. Lo assicura, dicono, una profezia degli antichi Maya. Che cosa c’è di vero?
Per rispondere con una parola sola: nulla. Ammettiamo che gli antichi Maya abbiano davvero previsto la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. Questo ci direbbe qualcosa sui Maya, ma nulla sulla fine del mondo. La cultura e le credenze dei Maya non sono “la verità” ed è bizzarro che qualcuno oggi le prenda come guida. Per esempio, i Maya credevano che gli dei avessero bisogno di sacrifici umani, un elemento assolutamente centrale nella loro cultura. Credevano anche che migliaia di sacrifici umani avrebbero reso i loro regni invincibili ed eterni. Non è successo: i regni Maya sono stati spazzati via dalla conquista spagnola.
Ma i Maya hanno, in effetti, previsto la fine del mondo per il 21 dicembre 2012?
No. Si tratta di una teoria inventata da un teorico del New Age nato in Messico ma cittadino statunitense, José Argüelles, a partire dagli anni 1970 e illustrata particolarmente nel suo volume del 1987 The Mayan Factor (in italiano Il fattore maya. La via al di là della tecnologia, WIP, Bari 1999). Argüelles ha ottenuto un dottorato e ha tenuto corsi in varie università, ma la sua materia è la storia dell’arte, non l’archeologia o la cultura Maya. Inoltre egli ha francamente dichiarato che molte sue teorie derivano da “visioni” che avrebbe avuto sotto l’influsso dell’LSD. Neppure un solo specialista accademico dei Maya ha mai preso sul serio Argüelles o le sue teorie sul 2012 e “ciarlatano” non è neppure la più severa fra le molte espressioni sgradevoli che la comunità accademica ha usato nei suoi confronti.
Su che cosa si basa l’idea della profezia Maya sul 2012?
Sul fatto che per i Maya questo mondo è iniziato a una data che può essere calcolata. Varie fonti danno diverse versioni, ma la data più diffusa corrisponde all’anno 3114 a.C. del nostro calendario. Da questa data iniziano cicli di anni chiamati b’ak’tun. Molti testi Maya parlano di venti b’ak’tun, dopo di che finirà questo mondo o ciclo. In una data fra il 21 e il 23 dicembre 2012, sempre secondo la versione più attestata dalle fonti del calendario Maya, finirà il tredicesimo b’ak’tun e inizierà il quattordicesimo. In genere la fine di un b’ak’tun per i Maya è occasione di celebrazioni e feste. Le iscrizioni e altre fonti che parlano di avvenimenti rilevanti in occasione della fine del tredicesimo b’ak’tun, nel dicembre 2012, fanno riferimento appunto a celebrazioni. Argüelles e i suoi sostenitori insistono sul Monumento 6 del sito archeologico Maya di Tortuguero, in Messico, che in corrispondenza della fine del tredicesimo b’ak’tun allude in termini peraltro confusi alla discesa di divinità e al fatto che “verrà il nero”. I commentatori accademici delle iscrizioni di Tortuguero pensano che si faccia riferimento anche qui a future cerimonie. In ogni caso, se si guarda al complesso dei testi di Tortuguero, si trovano riferimenti anche ai b’ak’tun dal quattordicesimo al ventesimo, per cui è certo che i Maya dell’epoca di questi monumenti (secolo VII d.C.) non pensavano che il mondo sarebbe finito nel nostro 2012, cioè alla fine del tredicesimo b’ak’tun. E non è neppure certo che i Maya pensassero a una fine del mondo con la fine del ventesimo b’ak’tun (da cui comunque ci separa qualche millennio) perché prima del nostro mondo ce n’era stato un altro, e potrebbe dunque trattarsi della fine di un mondo e non del mondo. Rimane anche vero che delle credenze dei Maya noi abbiamo un quadro incompleto e frammentario.
I Maya non avevano anche un’astrologia, sulla cui base prevedevano eventi felici oppure catastrofici, e in particolare una catastrofe nel 2012?
In linea concettuale si può dire che il calendario ci dice quando secondo un certo modo di calcolo termina un ciclo: ma che cosa succede alla fine di questo ciclo non ce lo dice l’astronomia ma la religione o l’astrologia. Il problema, però, è che non è neppure certo che i Maya avessero un’astrologia. Tutto quello che si può dire è che è possibile – ma non certo – che alcuni segni trovati in diversi codici (principalmente quello di Parigi – cfr. l’immagine –, acquisito dalla Biblioteca Nazionale della capitale francese nel 1832, ma ce ne sono di meno chiari anche altrove) mettessero in corrispondenza animali e costellazioni, creando una sorta di zodiaco, forse con significato astrologico. Siamo dunque in presenza di una congettura sull'esistenza di tredici simboli che potrebbero formare uno zodiaco e che secondo l'interpretazione più autorevole sono: due tipi diversi di uccelli (ma è difficile identificare quali siano), uno squalo o pesce “xoc”, uno scorpione, una tartaruga, un serpente a sonagli, un serpente più grande ma non identificato quanto alla specie, uno scheletro, un pipistrello, più due animali che corrispondono a zone del codice (di Parigi) troppo danneggiate per un'identificazione certa. Dal momento che non è neppure certo che esistesse un’astrologia Maya, ogni congettura su “previsioni” collegate a questa astrologia è del tutto insensata.
Ma gli attuali indios discendenti dei Maya prevedono la fine del mondo nel 2012?
Assolutamente no. Vari studi di antropologi ed etnologi mostrano che non attendono nulla di particolare per questo anno, anzi non hanno mai sentito parlare di presunte profezie.
Se si tratta di una bufala, perché è così diffusa?
Diversi studiosi dei Maya, piuttosto infastiditi, hanno parlato di una pura speculazione commerciale. È servita a lanciare diversi film, alcuni dei quali dal punto di vista meramente cinematografico sono anche ben fatti e gradevoli, purché li si consideri appunto dei semplici film e non si pretenda di ricavarne profezie autentiche. Da un punto di vista sociologico, forse si possono dire due cose in più. La prima riguarda l’enorme impatto della popular culture – romanzi, film, televisione – su un’opinione pubblica dove ormai è la vita a imitare l’arte e non viceversa e la fiction è considerata fonte d’informazioni sulla realtà (Il Codice da Vinci insegna). L’ultima puntata, del 2002, della popolarissima serie televisiva X-Files annunciava l’invasione degli alieni per il 21 dicembre 2012. Serie TV e film hanno una grandissima influenza su un pubblico “postmoderno”, dove i confini fra finzione e realtà si sono fatti davvero molto labili. La seconda osservazione parte da un fatto: l’idea della profezia Maya lanciata da Argüelles era parte integrante del New Age. Oggi il New Age è in crisi, ma ci sono molti che – per le più svariate ragioni – hanno interesse a rilanciarlo. La diffusione della presunta profezia sul 2012 è stata ed è una grande occasione di rilancio del New Age.
Ma della fine del mondo non parlano anche i cristiani?
Sì. Anzi, Papa Benedetto XVI nell’enciclica del 2007 Spe salvi lamenta che non se ne parli abbastanza, perché la prospettiva della fine del mondo e del Giudizio Universale, dove i sacrifici dei buoni e la malizia dei malvagi emergeranno agli occhi di tutti e saranno definitivamente giudicati, illumina l’intera storia umana. La Chiesa, però, ha sempre condannato il millenarismo, che pretende di detenere un sapere dettagliato, che va oltre la Sacra Scrittura e l’insegnamento del Magistero, sul “come” della fine del mondo e di poterne determinare anche il “quando”. La Chiesa annuncia la parola del Vangelo di Matteo (25, 13): “Non sapete né il giorno né l’ora”. E chi afferma di saperli s’inganna, e inganna chi gli presta fede. Fonte: CESNUR

DEMOCRAZIA E DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
Lectio magistralis del Cardinale Tarcisio Bertone, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte della Pontificia Facoltà Teologica dell'Università di Wrocław, in Polonia, l'11 febbraio scorso.
 
Cos'é l'amore ?
Molti sono convinti che la vita di una creatura conti solo se è una “scelta cosciente”, un atto dovuto, altrimenti diventa una costrizione, un “un dovere morale” e spetti alle donne, in nome del valore supremo della difesa della propria libertà, decidere della sorte di quel figlio che s’è “annidato” nel loro ventre.
Le cose di fatto sono più semplici: un figlio è un figlio, cercato, capitato, è un essere indifeso che ha bisogno d’essere custodito.
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giovedì 18 febbraio 2010

Può lo Stato nel suo ordinamento giuridico essere neutrale 
di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale?
Secondo quanto afferma il Card. Caffarra nella sua Nota Dottrinale del 14 febbraio 2010, lo Stato non può ritenere le due realtà ugualmente rilevanti per il bene comune.
"Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene – non solo biologico! – della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita.
Inoltre, è dimostrato che l’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo.
Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio.
Un’altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema.
L’equiparazione avrebbe, dapprima nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l’uno faccia una scelta piuttosto che l’altra.
Detto in altri termini, l’equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo.
4. Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione.
La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi.
Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d’Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: "L’uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo" [2,2, q.63, a. 1c].
Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone.
Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un’altra visione etica.
L’obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento.
Ovviamente – la cosa non è in questione – i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza.
Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per es. l’accusa di omofobia a chi sostiene l’ingiustizia dell’equiparazione; l’obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l’elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile.
5. Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere.
Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono.
Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale.
Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie.
È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell’amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica. La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche".
Bologna, 14 febbraio 2010
Festa dei Santi Cirillo e Metodio
Compatroni d’Europa


lunedì 15 febbraio 2010

`Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Gioite ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt. 5, 3-12).

 
Mons. Tonino Bello, con profonda efficacia, così commentava alcune beatitudini:
"E c'è, finalmente, il modo legittimo di leggere le Beatitudini. Consiste essenzialmente nel felicitarsi con i senzatetto e senza pane (gli affamati) come per dire: 'Complimenti, c'è una buona notizia! Sì, tutti si sono dimenticati di voi, ma Dio ha scritto il vostro nome sul palmo della sua mano, tant'è che i primi assegnatari della casa del Regno siete voi, che dormite sui marciapiedi e i primi cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi, che ora avete fame. Felicitazioni a voi, che a causa della vostra mitezza vi vedete continuamente scavalcati dai più forti o dai più furbi. Il Signore, non solo non vi scavalca, nelle sue graduatorie, ma vi assicura il primo posto nella classifica generale dei meriti.
E auguri a tutti voi che sperimentate l'amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri; c'è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia. Ed infine, su con la vita voi, che sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile sulla terra. Dio avvalla la vostra testardaggine."
 Io non credo, ma non ho una ragione scientifica per non credere.
Margherita Hack si è ben guardata dal fare come alcuni suoi colleghi e (se ci si passa il termine) «correligionari» i quali pretendono di affermare che uno scienziato non può credere in Dio, e che c’è contrasto tra scienza e fede. «La scienza - ha detto - non può dare risposte alla domanda sull’esistenza o sull’inesistenza di Dio. Infatti ci sono scienziati atei, agnostici e credenti. Io non credo, ma non ho una ragione scientifica per non credere. Semplicemente penso che, di fronte al Mistero dell’Universo e della Vita, l’idea di un Dio creatore sia una risposta un po’ facilona. Anch’io sono meravigliata nel constatare che da una zuppa primordiale di particelle elementari si sia sviluppata una vita così complessa. Ma mi accontento di spiegarlo con l’esistenza della materia. Sono atea, ma ammetto che anche il mio ateismo è una fede non dimostrabileDirebbe Althusser, in quel suo terribile giudizio: "La differenza tra il credere nella esistenza di Dio e il marxismo non sta in una ragione, è una pura opzione". Scelta di che? Accettare o non accettare l'Essere. Questa è una scelta che si ripropone ogni giorno, perché noi ogni mattina ci alziamo e ci poniamo di fronte alla realtà con lo sguardo spalancato, aperto, ingenuo di un bambino, pronto a dire pane al pane, vino al vino. "Sia il vostro dire sì, no; ogni altra parola viene dalla menzogna". Oppure ci alziamo con il gomito a coprire la faccia, guardinghi, per difenderci dalla realtà (accettare o meno l'Essere, la propria madre o Dio è lo stesso, la posizione è identica), accampando pretesti anche contro l'evidenza, naturalmente».
da http://www.samizdatonline.it
Igor Mitoraj: pianto
A che punto è la notte dei giovani
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 13 febbraio 2010
I luoghi comuni sui giovani ormai si sprecano, a cominciare dalla stessa definizione di una categoria di persone legata unicamente a una fascia di età fino a una cinquantina d'anni fa inesistente: una
serie di condizioni sociali e culturali faceva sì che non ci fosse «tempo per essere giovani», in quanto l'età di passaggio dall'adolescenza al mondo adulto era un brevissimo lasso di tempo. Eppure oggi si sente continuamente parlare di giovani, del loro «non essere più come quelli di una volta», delle loro attese e frustrazioni, del loro futuro. Anzi, proprio sul termine «futuro» un altro luogo comune rischia di portarci fuori strada nell'affrontare le problematiche giovanili: si sente ripetere che «i giovani sono il futuro della società (o della chiesa)», senza rendersi conto che questa affermazione da un lato tende a emarginalizzarli dal presente - come una sorta di difesa preventiva degli adulti che mantengono così la loro presa su un oggi di durata indefinita - e a ignorare che in realtà essi sono già «una parte del presente» della società, mentre dall'altro lato ignorapericolosamente il dato che più affligge oggi chi ha tra i venti e i trent'anni: la mancanza di speranzaper il futuro.
Tra gli aneliti più cocenti dei giovani, infatti, non vi è quello di «essere» il futuro di una determinata realtà sociale o ecclesiale, ma piuttosto di «avere» già ora un futuro verso cui tendere, un'attesa capace di dare senso al loro presente.
Per la chiesa poi, specie in Italia e in Europa, la questione «giovani» si fa particolarmente
preoccupante. Siamo di fronte alla Prima generazione incredula - come l'ha definita Armando
Matteo nella sua ottima riflessione su «il difficile rapporto tra i giovani e la fede» (Rubettino,
Soveria Mannelli, pp. 110, €10) - cioè a persone per le quali «nascere e diventare cristiano» non
sono più «eventi che accadono in modo sincrono», una generazione cui «nessuno ha narrato e
testimoniato la forza, la bellezza, la rilevanza umana della fede».
L'analisi di Matteo - assistente ecclesiastico nazionale della Fuci e come tale in costante contatto
con i giovani universitari - è lucida anche nel suo tratteggiare «quel senso di notte e quella notte di
senso» che attanaglia tanti giovani. Sono interrogativi - ma anche suggerimenti, intuizioni, proposte
da accogliere con gratitudine e approfondire con sapienza - che riguardano la chiesa intera e la sua
presenza nella società, oggi prima ancora che domani, la sua capacità di «umanizzare», di far
diventare l'essere umano più umano. Sono parole a volte sferzanti, dure da ascoltare, ma che ci
risvegliano a un'urgenza a volte percepita ma raramente assunta con serietà: la consapevolezza che
la fede, come la vita, la si trasmette da persona credibile a persona aperta alla possibilità di credere.
Si tratta di essere coscienti non solo di avere un patrimonio da trasmettere, ma anche del dover
rendere credibile e desiderabile l'eredità che si vuole lasciare a generazioni erroneamente definite
«che verranno»: esse in realtà sono già in mezzo a noi e da noi attendono segni di un passato verso
il quale essere grati, di presente aperto al domani, di un futuro possibile e che valga la pena di
essere vissuto, a partire da qui e ora.

lunedì 8 febbraio 2010

DIO E RAGIONE: nemici, estranei, alleati?
Chi sono i Santi? E gli Eroi? Sono tutti famosi?
Il vero problema è che di loro non se ne parla più o in modo distorto, siano essi famosi o no.
Oggi interessano, (meglio sarebbe dire: il Potere vuole che interessino, attraggano, possano affascinare) altri eroi o santi.
La TV nichilista ci propone solo quelli "venerati" ed osannati sull'isola dei Famosi e sulle tante altre "isole" create appositamente come loro altare. Una valanga giornaliera di immagini e personaggi frivoli, spesso immorali, quasi sempre prodotto da consumare e basta e poi via… “avanti un altro”.
Sono le "Isole" dei Media: Cine e TV, con fiction e talk-show, Internet, musica e sport, spettacoli ad ogni ora con attori e veline sempre più nude. Spopolano politici e soloni, tuttologi e paladini del nulla, al massimo qualche sostenitore di "madre-natura".
Tutti famosi sulle proprie isole di appartenenza o su quelle dove il dio-Denaro ha scelto di fare i propri investimenti economici o lanciare le proprie scelte ideologiche.
Così, tanto per cambiare, ancora una volta sono le giovani generazioni ad essere catturate nella rete e anch'essi spediti nel "paese dei balocchi", sull'isola del NULLA.
Ma c'è la crisi. Niente paura. I Famosi non ne soffrono.
I loro padroni lavorano con furbizia ed intelligenza e riescono a renderli ancora più famosi.
Sono il nuovo "oppio dei popoli", il miraggio più ambito per tanti giovani. Questi, non ancora famosi, cercano di apparire a qualsiasi prezzo. Allora si decide in banda di bruciare un povero barbone perché "non si sa cosa fare", o si riprende col telefonino ogni scabrosità, meglio se a scuola; tutto per dimostrare "talento e coraggio".
Dilaga l'immoralità culturale.
Nessuno tenta di porvi rimedio e chi ci prova incontra ostacoli spesso insormontabili.
Una crisi educativa che si tocca con mano, sia nella famiglia sia nella scuola. Le due linfe fondamentali per far crescere i nostri giovani sono spesso prive della giusta autorevolezza e in crisi d'identità.
                                                               
E' dunque ora che tutti gli educatori (e sono in molti quelli che ogni giorno faticano in questa loro missione) si facciano carico della loro grande responsabilità.
Educare è una vocazione, una necessità.
Fonte: www.samizdatonline.it